Ready Player One – recensione onesta

Quindici anni fa mi davo appuntamento con dei miei amici, ci saremmo dovuti vedere in diversi posti all’ora prestabilita.

A volte ci incontravamo a Dublino, a volte a New York, altre volte nell’arena armati di spara cocomeri. Eravamo su Second Life e io ero una tizia con gli anfibi e gli occhi di due colori diversi, un mio amico era se stesso con un altro nome (aveva persino trovato una maglietta uguale a quella che si metteva di solito) e la mia amica era un palestrato squadrato (non era brava con l’editor del personaggio).

In ready player one più o meno si fanno le stesse cose, solo che nel libro l’equivalente di Second Life si chiama Oasis e ha avuto successo anziché essere relegato a un ricordo del passato.

Tutti vivono su Oasis perché il mondo reale fa schifo. Noi ci trovavamo su Second Life perché non avevamo niente da fare (io in realtà perché pensavo che il mondo facesse schifo).

Il creatore di Oasis muore e lascia in eredità tutto il suo impero virtuale con annesso patrimonio a chi risolverà una serie di enigmi.

Ovviamente ci vogliono mettere le mani sia i buoni che i cattivi.

Gli enigmi saranno a colpi di partite a Pac Man, Joust e simili, recitazioni in film tipo Wargames.
Un po’ di nostalgia per 40 enni, che non fa mai male.

La storia scorre secondo un ritmo molto “arcade”, non c’è molto di più di un personaggio che procede linearmente affrontando difficoltà sempre crescenti fino ad arrivare al mostro finale.
Si poteva fare di meglio.

Carino, si lascia leggere soprattutto per il fatto che il personaggio non sta fermo un minuto, è sempre a fare casino, sparare, volare e poi vive nella parte sfigata del mondo, cosa che ci porta a fare il tifo per lui.

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